Per una economia come quella italiana, che non riesce a ripartire nei consumi interni e che affida la propria speranza di sopravvivenza all’export, l’estate 2016 è stata foriera solo di cattive notizie. Al referendum inglese, che ancora non ha sortito effetti concreti ma che preannuncia un’uscita del ricco mercato della Gran Bretagna dall’area europea, si aggiungere ora la morte dell’accordo Ttip. Il necrologio lo ha fatto, in un’intervista alla rete tedesca Zdf, il Vicecancelliere e Ministro dell’economia tedesco Sigmar Gabriel che ha ammesso ufficialmente il fallimento dei negoziati Usa-Ue sul trattato di libero scambio (Ttip).
L’obiettivo del Ttip era l’apertura di una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti in quattro settori (merci, servizi, investimenti e appalti pubblici), la semplificazione delle norme commerciali nonché la riduzione dei dazi doganali. Misure queste che avrebbero certamente consentito di agevolare le piccole e medie imprese italiane (ma al confronto dei colossi Usa, piccole lo sono tutte le imprese tricolori) che sul mercato statunitense speravano di proporre prodotti di alta e altissima qualità, assai apprezzati oltreoceano. Secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, l’introduzione del Ttip avrebbe garantito all’Italia il vantaggio di un maggior export potenziale verso gli Usa per 10-20 miliardi annui.
Ma nei nostri commenti avevamo ripetutamente sottolineato i rischi di un accordo se questo non fosse stato stiputato tra ‘pari’, magari dovendo piegare le nostre norme di tutela dei consumatori agli interessi multinazionali a stelleestrisce: OGM docet! Una preoccupazione che oggi ci viene confermata dallo stesso Ministro Gabriel: «I negoziati con gli Stati Uniti sono effettivamente falliti perché, come europei, non possiamo accettare supinamente le richieste americane». Ottima affermazione di principio: ma ora le imprese italiane sono pronte a innalzare ancor più la loro qualità per conquistare nuovi spazi sui mercati mondiali? Già l’autunno dovrà fornirci questa risposta.
Mario Ongaro