Il Nocchianello bianco e il Nocchianello nero sono stati inseriti nel registro nazionale delle varietà di vite e rientrano quindi a pieno diritto tra i vitigni riconosciuti e autorizzati dal Ministero. Appartengono ad una famiglia di antiche varietà di vitigni autoctoni dell’area del tufo di Pitigliano e Sorano, in Umbria, ed erano a rischio scomparsa.
Coltivati fino alla fine dell’800, i vitigni di Nocchianello quasi scompaiono da tutta l’area del Tufo nel secolo successivo, fino a che, nel 1979, parte un progetto di recupero e salvaguardia portato avanti dalla Cantina Cooperativa di Pitigliano. La coltivazione della vite nell’area del Tufo risale alla civiltà etrusca e non ha subito cambiamenti sostanziali fino alla fine dell’800. L’invasione di Fillossera a fine ‘800 danneggia i vitigni locali che vengono in parte sostituiti con varietà provenienti da altre zone. Il ricorso al materiale non autoctono prosegue negli anni sessanta del secolo successivo con il passaggio alle coltivazioni specializzate, che hanno portato ad una drastica riduzione del patrimonio genetico della vite in tutta l’area del Tufo.
Il riconoscimento ministeriale salvaguarda un forte legame con il territorio
La ricerca avviata negli anni settanta ha permesso di catalogare 29 varietà di Nocchianello, raccolte in una pubblicazione del 1985 e di procedere alla realizzazione di un vigneto collezione che oggi non esiste più. Il progetto viene ripreso nel 2012 dal CREA di Arezzo in collaborazione con l’azienda Sassotondo, fino alla creazione di un nuovo vigneto collezione che ha portato ad individuare tra i vecchi vitigni le varietà più idonee alla coltivazione, da inserire nel registro nazionale: il Nocchianello bianco e il Nocchianello Nero.
«L’inserimento nel registro nazionale è un traguardo storico – commenta Giovanni Gentili, sindaco di Pitigliano – che porterà benefici in termini di identità territoriale a tutto il comprensorio. Un risultato frutto di un lungo percorso iniziato nel 1979 che ci consente, oggi, di ottenere dal Ministero non solo un riconoscimento formale ma anche l’autorizzazione a coltivare queste varietà autoctone, recuperando un importante patrimonio genetico e di sapori che rischiavano di andare persi».