L’andamento ribassista dell’intera borsa di Milano, legato più a fattori politici che economici, non ha permesso di cogliere il peso dell’ondata di vendite che ha colpito marchi del lusso quali Moncler, Salvatore Ferragamo e Brunello Cucinelli. Ma in questo caso la politica non c’entra, tantè che a Parigi sono scese le quotazioni di Kering e Lvmh; a Zurigo quelle di Richemont e Swatch; a Londra Burberry. Naturalmente non si può trattare di una coincidenza ed in effetti è arrivato quasi contemporaneamente il giudizio degli analisti di Morgan Stanley che hanno titolato uno specifico report: “Beni di lusso: non più di moda”. Di fatto una raccomandazione a ridurre l’incidenza dei titoli legati ai grandi brand del lusso nei portafogli degli investitori.
E dire che i conti trimestrali pubblicati da Lvmh hanno riportato vendite in aumento del +10% a 33,1 miliardi sui nove mesi. Ed anche Credit Suisse ha sostenuto che la temuta frenata del settore ancora non si vede. Ma allora, da dove trae gli auspici negativi Morgan Stanley? Dalla Cina che nel recente passato ha consolidato un ruolo chiave per monitorare le tendenze dei beni di lusso: secondo gli analisti la fiducia dei consumatori cinesi sembra aver già raggiunto il suo apice. È evidente che se dovesse rallentare la crescita di interesse per il fashion nell’immenso mercato cinese, potrebbe innescarsi un effetto domino che contagerebbe anche i più tradizionali sbocchi dell’industria del bello e della creatività che negli anni recenti è ‘esplosa’ con guadagni, costi e valutazioni esponenziali.
Il richiamo di Morgan Stanley potrebbe allora dimostrarsi un utile campanello d’allarme: il castello della moda ha bisogno di fondamenta solide e consolidate. Non potrà certo essere un’acqua minerale a 8 euro che salva un mondo se questo è fatto solo di labili immagini internettiane.