Si parla molto di salvare l’ambiente, ma cresce l’acquisto di abiti poco o per nulla utilizzati .
Tra il 1990 e il 2018, ultimo dato annuale disponibile, i prezzi reali di calzature e abbigliamento si sono dimezzati negli Stati Uniti, come mostra una analisi di “Cambridge econometrics”. E secondo i dati del “Bureau of labor statistics”, i consumatori statunitensi spendono solo il 3% del loro reddito disponibile per l’abbigliamento, rispetto al 10% degli anni ’60.§
È quanto si legge in un articolo del prestigioso “The Wall Street Journal” che sottolinea come la globalizzazione abbia permesso alle più grandi catene del fast fashion di spostare le loro produzioni in Paesi a basso costo della manodopera. Ma questa strategia ha un costo ambientale molto elevato: produrre di più richiede molta acqua e prodotti chimici e, soprattutto, genera enormi sprechi dei quali i consumatori sembrano interessarsi pochissimo, incrementando costantemente i propri acquisti, circa il +3% all’anno.
Secondo un recente rapporto di “Ubs”, l’unione delle banche svizzere, dei circa 100 miliardi di capi prodotti ogni anno, più di 50 miliardi vengono buttati via e successivamente bruciati o messi in discarica entro 12 mesi dalla produzione.
I rischi ambientali, sociali e di ‘governance’ non sembrano essere considerati nei prezzi delle azioni delle aziende di moda quotate in borsa, ma qualcosa sta cambiando, sostiene “The Wall Street Journal” in quanto da parte degli investitori si stanno facendo sempre più frequenti le domande sulla sostenibilità ambientale delle produzioni. Infatti, ritengono gli analisti, se il costo ambientale del fast fashion diventasse un argomento caldo per i consumatori, l’impatto sulle vendite potrebbe essere improvviso.
Le grandi catene di abbigliamento sono ben consapevoli del rischio. Inditex, il proprietario di Zara, il più grande rivenditore di moda al mondo per fatturato, è uno dei tanti attori che offrono collezioni realizzate con tessuti più sostenibili. H&m dal 2013 ha offerto un servizio di raccolta e riciclaggio degli indumenti nei suoi negozi.
Per ora, però, queste iniziative sembrano essere efficaci solo in termini di comunicazione con il pubblico e non risolvono il problema della sovrapproduzione dei marchi, che anzi stanno comunque incrementando la produzione di nuovi modelli per indurre a sempre nuovi acquisti.