Una campagna sollecita la Commissione Europea ad aggiornare i criteri di valutazione ambientale .
Si chiama “Make the Label Count” (“Fai contare l’etichetta”) la campagna lanciata da una nuova coalizione di organizzazioni e realtà internazionali del settore tessile. Si tratta di AWI (Australian Wool Innovation), IWTO (International Wool Textile Organization), The Campaign For Wool, Changing Markets Foundation, Fibershed, Plastic Soup Foundation, Cotton Australia, ISU (International Silk Union), Discover Natural Fibers Initiative, International Sericultural Commission e CCMI (Cashmere and Camel Hair).
Queste sigle chiedono alla Commissione Europea garanzie affinché vengano adottate sull’abbigliamento etichette di sostenibilità che siano più trasparenti, complete e accurate. Questo perché, secondo la coalizione, il metodo fin qui scelto dalla Commissione per valutare l’impatto ambientale, denominato Product Environmental Footprint (PEF), risulta essere incompleto e rischia di fuorviare i consumatori ben intenzionati.
«Per anni – ha dichiarato Livia Firth, co-portavoce della campagna e Creative Director di Eco-Age – abbiamo spinto per una migliore etichettatura sugli articoli di moda. La nostra industria ha un impatto inaccettabile sul pianeta e i consumatori non vogliono esserne complici. Siamo pronti a contribuire allo sviluppo di un’etichetta chiara e credibile che rifletta la scienza più recente sul campo per responsabilizzare milioni di consumatori europei e non solo».
Dalena White, co-portavoce di Make the Label Count e segretario generale dell’International Wool Textile Organisation (IWTO) spiega che negli ultimi anni «abbiamo visto importanti miglioramenti nella ricerca e nella conoscenza degli impatti ambientali dell’industria tessile: questi però non sono inclusi nella metodologia attuale. Vogliamo che i consumatori abbiano piena visibilità della sostenibilità di un prodotto e, nella sua forma attuale, la PEF non lo fa. Abbiamo bisogno di informazioni affidabili sul fatto che i vestiti siano realizzati con materiali rinnovabili e biodegradabili, se siano riutilizzabili e riciclabili e se gettino microplastiche nei nostri ecosistemi che inquinano le catene alimentari. Solo allora – conclude White – potremo ottenere un’etichetta di sostenibilità per l’abbigliamento che fornisca ai consumatori informazioni credibili che diano sostanza alle affermazioni ecologiche impedendo il greenwashing».