Un report olandese ha valutato negativamente le più diffuse: non ci sono garanzie d’imparzialità
Sul mercato esistono più di cento certificazioni registrate da “Ecolabel index” che valutano l’impronta ecologica degli abiti, ma il report “Licence to greenwash” redatto dalla fondazione olandese “Changing markets” ha indagato l’attendibilità di queste etichette selezionando le dieci più diffuse.
La valutazione finale è decisamente negativa: quasi tutte le certificazioni si pongono infatti obiettivi poco ambiziosi e non li aggiornano con il passare del tempo, si limitano a considerare solo alcune fasi del ciclo di vita dei prodotti (escludendo quasi sempre lo smaltimento), sono soggette alle pressioni e all’influenza dei marchi e presentano uno scarso livello di trasparenza.
La mancanza di affidabilità di queste iniziative permette così all’industria della moda di presentare i propri prodotti come innovativi e sostenibili quando in realtà non lo sono. “Ciò che questi programmi hanno in comune – si legge nel report – è che sono tutti volontari e la nostra analisi mostra come l’autoregolamentazione del settore non sia riuscita”.
Una delle migliori certificazioni, anche se non pienamente sufficiente, è Ecolabel, quella direttamente promossa dall’Ue nella Direttiva 66/2010. Tra quelle analizzate, è l’unica a non essere legata agli interessi delle aziende ed è stata valutata positivamente per la sua capacità di prendere in considerazione l’intero ciclo produttivo degli indumenti e per la sua attenzione all’uso di sostanze chimiche durante la lavorazione. Tuttavia non approfondisce in modo adeguato i problemi legati all’inquinamento da microplastiche e non promuove il riuso e il riciclo degli indumenti.
“La nostra analisi – si legge nel report olandese – rivela come le certificazioni molto spesso non considerino le questioni legate alla fast fashion e alla sovrapproduzione e sembrano ignorare come il modello di business prevalente dell’industria sia uno dei maggiori responsabili per il disastro ambientale”.
Negli ultimi venti anni, infatti, il numero di capi di vestiario acquistati per persona è raddoppiato ed è previsto che aumenti di un ulteriore 63% entro il 2030. Allo stesso tempo la durata degli indumenti, ossia il numero di volte che viene indossato durante il suo ciclo vitale, è diminuito del 40% negli ultimi 15 anni.