«Sapevamo che era difficile – ha commentato amaro Giuliano Secco, portavoce del Tavolo Veneto della Moda – Sapevamo che la Germania, ed il blocco di Paesi che porta con sé, era troppo forte. Non ci siamo mai illusi che si arrivasse alla chiusura del dossier con una vittoria schiacciante del fronte del “sì”. Ma combattere e farsi onore sul campo, questo sì che ce lo aspettavamo dal Ministro Federica Guidi in primis e da tutto il Governo Italiano».
Il Tavolo Veneto della Moda è l’unica esperienza in Italia di coordinamento tra le rappresentanze di Confartigianato, Cna, Confindustria, Confcommercio e Confesercenti del comparto. Alla notizia che il Consiglio Europeo non ha raggiunto l’accordo sull’etichetta di origine obbligatoria ed ha rimandato ogni decisione in merito al 2015 durante il semestre europeo della Lettonia (Paese del blocco della Germania!) c’è stato molto di più che una forte delusione: «È mancata una preparazione seria e decisa da parte della Ministra Guidi – ha proseguito Secco – che, in qualità di Presidente di turno del Consiglio, nel dare conto degli sforzi compiuti fin qui per sostenere il ‘made in’, anche evocando possibili soluzioni tecniche, ha poi concluso rinviando ogni sviluppo agli esiti di uno studio di impatto che giungeranno a semestre scaduto, promettendo che l’Italia insisterà durante la presidenza lettone. Ci sembra un po’ poco».
Amarezza del Tavolo Veneto della Moda per il mancato ‘Made in’
«Una doccia fredda – hanno dichiarato i componenti del Tavolo Michele Bocchese (Confindustria), Gianluca Fascina (Confartigianato), Giorgio Silvestrin (CNA), Gabriel Giannino (Confcommercio) e Marialuisa Pavanello (Confesercenti) – che ci fa comprendere come il Ministero dello Sviluppo Economico non abbia capito quanti posti di lavoro in più, quali ricadute economiche concrete sui territori e soprattutto quale impatto emotivo sugli imprenditori avrebbe potuto garantire il “Made in” obbligatorio. La crescita dipende anche dall’ottimismo e dalla fiducia, che valgono più di un trattamento economico. A perderne il patrimonio manifatturiero italiano rappresentato da 596.230 imprese con 16.274.335 addetti, di cui il 47,2% in microimprese sotto i 9 addetti, il 58,1% in micro e piccole imprese fino a 20 addetti e il 67,9% in piccole imprese sotto i 50 addetti»
«Ulteriore amarezza – ha concluso il portavoce Secco – deriva da una coincidenza temporale. Proprio mentre l’Europa abbandonava la sua tracciabilità, negli Stati Uniti La Federal Trade Commission annunciava un giro di vite nei confronti dell’utilizzo della certificazione sulla produzione all’interno degli Stati Uniti. Una stretta che si tradurrà in una valorizzazione del marchio “Made In”. Una strategia coerente con il periodo di rilocalizzazione negli Usa di molte attività produttive che precedentemente avevano delocalizzato in Cina. Quando smetteremo di farci del male?».