La Cassazione, quinta sezione penale, ha riconfermato il principio secondo cui, perché sussista il reato di contraffazione, è sufficiente un’imitazione, anche parziale. Con una recente sentenza infatti ha richiamato il principio per il quale: «L’indicazione di un segno distintivo posta sull’etichetta di un prodotto sul quale è impresso un logo simile a quello di un marchio noto non esclude l’idoneità dello stesso a ledere l’affidamento del pubblico».
Il caso in esame era quello di un commerciante di intimo, che pur apponendo nella merce la propria etichetta, ai più del tutto sconosciuta, utilizzava il logo di un coniglietto, troppo simile, per non dire identico, a quello utilizzato da Playboy. Condannato a 20 giorni di reclusione e 300 euro di multa per la vendita dei prodotti con un marchio contraffatto, il commerciante ricorse in Cassazione lamentando che la reale provenienza della merce era palesemente indicata dall’etichetta e di conseguenza il suo comportamento non sarebbe stato tale da mettere in pericolo l’affidamento altrui.
La Suprema Corte però ha rigettato il ricorso rilevando come l’applicazione del segno sull’etichetta riguarda le modalità di fabbricazione e, anche se utile ad identificare la provenienza del prodotto, ha un’assoluta irrilevanza ai fini commerciali. Del resto la presenza di un doppio marchio (uno rappresentato dall’etichetta e l’altro dal logo) determina nell’acquirente incertezza circa l’originalità del prodotto ed è pertanto idonea a trarre in inganno la generalità dei cittadini. La tutela della buona fede offerta dalla norma penale «non è rivolta in favore di chi contrae con l’autore del reato, bensì nei confronti della generalità dei soggetti possibili destinatari dei prodotti effettivamente provenienti dalle imprese titolari dei marchi e, mediamente, nei confronti di queste che hanno interesse a mantenere certa la funzione del marchio come segno di particolare qualità e originalità della propria produzione».