Gli esperti hanno espresso molte preoccupazioni per le politiche protezionistiche che potrebbero essere attuate negli Stati Uniti, terza destinazione dell’agroalimentare italiano. E anche il recente accordo CETA con il Canada è stato da alcuni fortemente criticato perché non difenderebbe adeguatamente il Made in Italy.
Una analisi completamente diversa emerge dallo studio “Agrifood monitor” realizzato da Nomisma e Crif, società di consulenza fondata a Bologna e operante a livello globale. In occasione della presentazione dello studio si è svolto un confronto di idee dal quale sono emersi elementi di maggiore chiarezza. Innanzitutto il punto di partenza da tutti condiviso è che le economie statunitense e canadese sono in crescita e che i consumatori, soprattutto giovani, hanno una gran voglia di Made in Italy. I margini per espandersi, quindi, ci sono se si asseconderanno le tendenze peculiari di quei mercati.
Capire le esigenze di un mercato diverso dal nostro e dai grandi numeri
In tutto il Nord America sembra che i consumatori si facciano molto influenzare dai programmi di cucina e dai contenuti diffusi sui social network. Michele Scannavini, presidente dell’Ice, ha spiegato come l’agenzia per il commercio estero abbia investito negli ultimi tre anni 88 milioni di euro in Nord America per promuovere i nostri prodotti, stringendo accordi con i distributori locali, come il colosso Walmart. Anche il CETA potrà avevre effetti positivi: Paolo Tramelli, del Consorzio di tutela del Prosciutto di Parma, ha spiegato che dall’entrata in vigore dell’accordo il Consorzio può finalmente esportare con il suo nome il prosciutto crudo. Cosa non possibile precedentemente, visto che il marchio ‘Prosciutto di Parma’ era detenuto da una azienda canadese, come un qualunque trademark commerciale. E Jan Scazighino, ministro consigliere dell’ambasciata del Canada in Italia, ha approvato una intesa che apre al riconoscimento delle indicazioni di origine.