La pandemia, che sta devastando il mondo produttivo e del lavoro, ha messo in luce alcune eccellenze nazionali, ma ha avuto anche qualche ‘danno collaterale’. Certamente per il nostro Paese il segnale migliore è venuto dalla resilienza dell’agroalimentare che abbiamo sottolineato, ripetutamente e per molti aspetti, in queste nostre pagine. Merito, soprattutto, della qualità delle produzioni nostrane che non solo hanno garantito un approvvigionamento adeguato ai consumi interni, ma che hanno anche continuato ad essere esportate in tutto il mondo migliorando la bilancia dei pagamenti italiani.
Il lavoro agricolo è stato fortemente condizionato dalle restrizioni rese necessarie dalla lotta alla pandemia, specie per quel che riguarda i movimenti transfrontalieri delle persone. L’Italia è carente di manodopera e già lo scorso anno, appena scattato il primo lockdown, avevamo scritto delle produzioni rimaste sui campi per la mancanza di addetti alla raccolta. Tant’è che anche di recente il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, sottolineava come l’agricoltura abbia la possibilità di offrire occupazione ai giovani italiani rimasti senza lavoro a causa del Covid, di fatto sostituendo gli stagionali che non possono più arrivare dall’estero.
Dicevamo della qualità che fa premio alla produzione italiana, ma purtroppo non sempre questa corrisponde alla qualità del lavoro dei campi. Un fenomeno tristemente noto e che si è cercato, mediaticamente, di confinare alle campagne del Sud. Il recente caso riportato dalla stampa locale che ha coinvolto una azienda del vicentino ci dice che non è sempre così: l’Ispettorato Interregionale del Lavoro, coadiuvato dai Carabinieri, ha riscontrato una grave situazione di sfruttamento lavorativo e di irregolarità contrattuali nei confronti di 14 lavoratori, stranieri ed italiani nelle provincie di Mantova, Bologna ed appunto Vicenza. Lavoro nero, uso massiccio di “pseudo tirocinio”, condizioni di gravi irregolarità in materia di salute e sicurezza nel luogo di lavoro: il tutto per una produzione ‘bio’ che dichiarava la propria sostenibilità ambientale, ma dimenticava quella sociale.
Una rondine non fa primavera e un caso particolare non inficia un intero sistema produttivo: anzi chi opera con questi mezzucci fa concorrenza sleale alla maggioranza che lavora nella legalità. Ma anche un singolo caso basta per sottolineare l’importanza dei controlli e della cooperazione tra organi ispettivi e parti sociali territoriali. Il sistema italiano e europeo ha gli strumenti legislativi per difendersi da queste offese alla dignità del lavoro. La pandemia non può mai giustificare lo sfruttamento che, come le bugie, ha le gambe corte e che, quindi, non porta da nessuna parte.