Lo sfruttamento delle risorse umane e ambientali dei territori più poveri dell’Africa e dell’Asia
Manodopera a bassissimo costo, assenza di controlli ambientali e condizioni fiscali vantaggiose: la concomitanza di questi fattori spinge i grandi marchi della moda low cost a produrre nei territori più poveri della terra in Africa e in Asia. Uno sfruttamento che ha conseguenze terrificanti per i lavoratori, spesso ancora solo bambini, ai quali non viene riconosciuto alcun diritto e che provoca effetti disastrosi sull’ambiente.
Water Witness International (WWI) ha pubblicato un report sulle tragiche condizioni in cui versano i fiumi in Lesotho (Sudafrica) e Tanzania per evidenziare i danni provocati dall’industria del fast fashion. Nel continente africano, in particolare, le risorse idriche vengono sfruttate dalle industrie, lasciando ‘a secco’ la popolazione che non ha acqua pulita nemmeno per bere.
In Lesotho, i ricercatori del WWI hanno trovato un fiume visibilmente inquinato dai colori artificiali utilizzati per tingere i tessuti di jeans. Anche il fiume Msimbazi a Dar es Salaam (Tanzania), mostra preoccupanti segni di inquinamento: dai campioni di acqua raccolti nei pressi di un’industria tessile, infatti, è emerso un pH pari a 12, praticamente quello della comune candeggina.
Ma le comunità locali non hanno alcun’altra alternativa per cui acque inquinate vengono comunque utilizzate per l’alimentazione, l’irrigazione dei campi e le pratiche igieniche.
Il report segnala cinquanta brand di fama internazionale che producono o hanno prodotto i loro capi di abbigliamento in nazioni africane, anche se non collega l’inquinamento delle acque rilevato a nessuno di questi): fra queste Zara, Calvin Klein, Levi’s, Adidas e Reebok.
Invece H&M ha confermato la provenienza africana di molti prodotti, ma ha mostrato le numerose iniziative per assicurare la sostenibilità del marchio e limitare al minimo l’inquinamento.
Il settore tessile offre senza dubbio importanti opportunità di crescita e sviluppo economico alle nazioni africane, ma queste non possono ripagare i danni dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse umane.