Livia Firth è fondatrice di Eco Age, l’associazione no profit che si occupa della sostenibilità nella moda e che nel corso Settimana della Terra a fine aprile si è schierata contro il fast fashion a basso prezzo. Lo ha fatto lanciando una domanda: “Chi paga il vero costo di un abito che viene venduto a quattro dollari?”.
Uno scomodo esempio portato da Eco Age è quello che viene dalla seta: quando si è cercato di limitarne l’impatto ambientale e sociale e si è favorita la sua sostituzione con la viscosa, per poi scoprire che il lavoro di sintesi della cellulosa, il materiale naturale da cui è ricavata, ha un processo altamente inquinante e, se non bastasse, consuma un’enorme quantità di acqua.
In Italia può definirsi all’avanguardia sul tema dell’ecosostenibilità della moda
I protocolli di ecologici nel nostro Paese sono molti e sono molte le aziende che hanno studiato diversi modi di sostenibilità certificati dal Ministero dell’Ambiente. Basti citare, per tutti, il protocollo Social & Environmental Responsability di Gucci creato già nel 2004 e l’impegno sul tema di Prada che, oltretutto, il 21 marzo scorso ha ospitato la conferenza mondiale Shaping a Creative Future in collaborazione con Yale University e Politecnico di Milano.
Iniziative che, però, non spostano la problematicità della situazione sulla sostenibilità della condizione in cui versano milioni di lavoratori nel mondo chiamati a produrre quella moda a basso costo che le grandi multinazionali del fast fashion spacciano per “democratica”, come “la moda per tutti”. Una espressione ingannevole, dice Livia Firth, perché «l’acquisto a basso prezzo non rende meno gravi le colpe dello sfruttamento dei tanti che producono una quantità inimmaginabile di vestiti».