«L’agricoltura italiana non ha bisogno di meno Europa, ma di un’Europa più forte e coesa, con un ruolo più incisivo e propositivo dell’Italia»: questo lo spirito espresso dal presidente Massimiliano Giansanti all’assemblea nazionale di Confagricoltura svoltasi a Milano. E ribadendo il profondo attaccamento degli agricoltori alla «casa comune europea», Giansanti ha affermato: «La nostra proposta è di imboccare la strada verso un’Unione sempre più vicina ai bisogni dei cittadini e delle imprese».
Per Giansanti, sulle vicende dell’economia italiana, hanno avuto un impatto negativo i ritardi accumulati nel completamento del mercato unico, dell’unione bancaria e del rafforzamento dell’euro-zona e nonostante la ripresa che si è registrata negli ultimi anni, il reddito nazionale resta inchiodato sui livelli in essere nel lontano 2004. «Per tornare a crescere – ha proseguito il leader di Confagricoltura – l’economia italiana ha bisogno di misure straordinarie, ma inquadrate nell’ambito di un piano strategico con una visione a lungo termine. Ed è indispensabile far ripartire gli investimenti pubblici, per sostenere la competitività del sistema produttivo ed agevolare la presenza dei nostri prodotti sui mercati di sbocco all’estero».
Secondo Confagricoltura ci sono già tutti gli strumenti per dare sviluppo e crescita al Made in Italy
Per la politica di coesione della Ue, stando alle proposte della Commissione, l’Italia avrebbe a disposizione 38,6 miliardi di euro, a prezzi costanti (2018), dal 2021 al 2027. La proposta di Confagricoltura è che una larga parte di quelle risorse sia destinata alla modernizzazione delle infrastrutture, con una scelta in termini di concentrazione dei programmi che è mancata in passato.
«La crescita dell’economia italiana non può continuare a dipendere solo dalla dinamica delle esportazioni – ha evidenziato ancora Giansanti – E se è vero che quelle del settore agroalimentare continuano a crescere, è altrettanto vero che l’Italia sta diventando sempre più un Paese che trasforma materie prime agricole in arrivo dall’estero, rinunciando così ad una parte del valore aggiunto generato all’interno della filiera. È una tendenza che va assolutamente corretta».